Credits: Official Page Facebook of Juan Pablo Montoya/@jpmontoya

La Formula 1 o ti piace o non ti piace. Inutile girare intorno a pensieri, dubbi e inutili parole. Se non ti emozioni dinanzi a delle frasi di leggende di questo sport, significa che il tuo passatempo preferito, quando non sei al lavoro, non è rappresentato da una monoposto in grado di «suonare» che è una bellezza. Ad esempio, Gilles Villeneuve, uno che conosceva a memoria una macchina della Formula 1, tanto tempo fa, disse «Dovremmo affrontare le curve con una marcia inferiore a quella che usiamo ora e buttare la macchina di traverso. La gente è ancora innamorata di come Ronnie Peterson guidava la Lotus 72 e li capisco, sono d’accordo con loro. Questo è il tipo di intrattenimento che voglio dare alla folla: gomme che fumano!».

Un’espressione che, ancora oggi, agli appassionati di un tempo provoca quel dolore allo stomaco. Quel segno tangibile della nostalgia, che ti segna. E nel mondo, molte persone soffrono di nostalgia. Chi ricorda l’amore. Chi le vecchie amicizie. Chi la finale Mondiale dell’Italia. E poi c’è chi ha veramente voglia di rivedere, almeno solo per un momento, Juan Pablo Montoya su un circuito di Formula 1. Sguardo attento. Immancabili occhiali da sole. Camminata intensa e sicura di sé. Questo era il guerriero colombiano, nato il 20 settembre del 1975. Altri tempi. Altri periodi, dove le varie monoposto del «Circus» venivano considerate incredibilmente belle e intoccabili. In quegli anni, infatti, si sussurra che, in Colombia, i giovani sognavano di diventare giocatori di calcio o piloti di Formula 1. E tra questi c’era un ragazzino tranquillo, ma dal viso scaltro. A 6 anni, così, il piccolo Montoya gareggia già sui kart, su input del papà e dello zio, altro pilota di famiglia. Tre anni dopo ottiene la vittoria del campionato di categoria, mostrando tutto il suo talento.

Ma è solo l’inizio di un successo che durerà per moltissimo tempo. Bogotà inizia a conoscerlo perbene. Non è solo il ragazzino dai sogni nel cassetto. Ormai è un pilota che vuole diventare grande ed entrare nella storia del Paese sudamericano. Tra Valderrama, la Nazionale di calcio e i problemi quotidiani, il nome Juan Pablo viene ripetuto più volte dal barbiere, dal salumiere e da molti addetti ai lavori, con quest’ultimi, lo portano in Europa a metà degli anni ’90.

Lui, nato nella capitale della Colombia, lascia la Nazione con tristezza, ma con la consapevolezza di dover fare, per forza di cose, questo passo. E così si fa conoscere anche al di fuori del Sud-america, piazzandosi sul podio al Campionato di Formula 3000. Era il 1997 e anche la Formula 1, a breve, si sarebbe accorta di lui. Esattamente quattro anni dopo. L’esordio è da ricordare. Pronti via e con la sua BMW-Williams si rende protagonista di un celebre sorpasso ai danni di Michael Schumacher durante il Gran Premio del Brasile. La stagione 2001, però, viene ricordata sia per la prima vittoria ottenuta a Monza ma anche per i tanti problemi registrati con la sua monoposto.

Va meglio l’anno successivo, ma il terzo posto finale e la casella zero vittorie nei Gran Premi, fanno storcere il naso ai suoi fan che, ormai, si aspettano molto da lui: il Mondiale. Simile situazione nel 2004, con Ferrari e McLaren a fare la parte dei leoni affamati, che alla concorrenza non lasciano nemmeno le briciole. Così, prima di passare nel team di Woking per il definitivo salto di qualità, il colombiano, durante le prove libere del Gran Premio di Monza, è protagonista del giro più veloce della storia riguardante la Formula 1, grazie ai 372 km/h raggiunti dalla sua Williams-BMW. Fu il momento migliore per Montoya che, da quel momento in poi, malgrado il suo approdo in McLaren, ottenne solo qualche soddisfazioni e molte delusioni.

Tra infortuni, problemi alla sua auto e noia, nel 2006 il pilota di Bogota decide di chiudere la sua esperienza in Formula 1, complice anche dissidi con la sua nuova squadra. Una perdita accolta con stupore da tutti gli appassionati, ormai amanti di Montoya, diventato l’icona colombiana di questo sport. Perché nei suoi occhi, quando non erano coperti dalle lenti scure, si percepiva la fame di vittorie, ancora oggi viva in Formula Indy. Anche all’età di 41 anni.